ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 3672/2015 R.G. proposto da
Scaglione Antonio, rappresentato e difeso dall’avv. Giuseppe
Vitolo, con domicilio eletto in Roma, Lungotevere Mellini n. 17.
– ricorrente –
contro
Scaglione Carmelina.
-intimata –
avverso la sentenza della Corte di appello dì Napoli n. 3426/2014,
depositata il 28.7.2014.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 11.9.2018, dal
Consigliere Giuseppe Fortunato.
FATTI DI CAUSA
Carmelina Scaglione ha adito il tribunale di Salerno, chiedendo, con
azione possessoria, la condanna di Antonio Scaglione alla rimozione
di una canna fumaria apposta sulla parete condominiale, posizionata
lungo il muro perimetrale a circa cm 90 da una finestra dell’unità
abitativa dell’attrice, in violazione della distanza dalle vedute e lesiva
del decoro architettonico dell’edificio.
Il Tribunale ha accolto la domanda e l’appello proposto da Antonio
Scaglione è stato dichiarato inammissibile dalla Corte territoriale di
Salerno, per il fatto che l’appellante si era limitato a dedurre la nullità
della sentenza di primo grado senza sollevare censure di merito.
La decisione è stata cassata da questa Corte e la causa è stata
riassunta dinanzi alla Corte d’appello di Napoli, che ha confermato la
condanna della ricorrente alla rimozione del manufatto.
Ha ritenuto il giudice del rinvio che, essendo applicabile anche al
condominio la disciplina dell’art. 907 c.c., l’opera costituisse una
costruzione e che fosse stata realizzata a distanza illegale; che essa
ostacolava l’esercizio della veduta obliqua, sporgendo dalla parete
per la sua estensione verticale, ledendo – infine – il decoro
architettonico dell’edificio, producendo un “risultato esteticamente
sgradevole”.
Per la cassazione della sentenza Antonio Scaglione ha proposto
ricorso in due motivi.
Carmelina Scaglione non ha svolto attività difensiva.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Il primo motivo censura la violazione degli artt. 890, 906,907 e
1102 c.c., in relazione all’art. 360, comma primo, n. 3 e 5 c.p.c..,
sostenendo che la canna fumaria non poteva considerarsi una
costruzione agli effetti della disciplina delle distanze, costituendo un
mero accessorio di un impianto, e che comunque, in ambito
condominiale, l’art. 907 c.c. riceva un’applicazione residuale, nei
limiti di compatibilità con le previsioni che disciplinano l’uso delle
cose comuni da parte dei condomini. Lamenta, inoltre, il ricorrente
che la canna fumaria non aveva leso il decoro architettonico
dell’edificio, già di per sé di modesta fattura, era posta sul muro
retrostante il fabbricato, non era visibile dalla strada principale ed
era stata realizzata nel pieno rispetto della disciplina urbanistica
locale e delle facoltà concesse ai singoli proprietari dall’art. 1102 c.c..
Il motivo è infondato.
La Corte distrettuale ha ordinato la rimozione della canna fumaria,
ritenendo che essa costituisse costruzione ai sensi della normativa
sulle distanze legali (e segnatamente dell’art. 907 c.c.) e che ledesse
il decoro architettonico dell’edificio, poiché, per i materiali da cui era
composta, per le sue dimensioni e per la sua innegabile evidenza,
non si inseriva nell’aspetto armonico della facciata, producendo un
“risultato esteticamente sgradevole” (cfr. sentenza pag. 10 e 11).
Pur considerando che l’opera era stata impiantata su un prospetto
secondario del fabbricato, ha però stabilito che ne alterava la sagoma
modificando l’aspetto del muro condominiale in violazione dell’art.
1120 c.c., essendo inoltre in contrasto con le previsioni dello
strumento urbanistico locale, che vietava l’apposizione di canne
fumarie esterne alle murature.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte l’appoggio di una canna
fumaria al muro comune perimetrale di un edificio condominiale
sostanzia una modifica della cosa comune conforme alla sua
destinazione, che ciascun condomino – pertanto – può apportare a
sue cure e spese, ma a condizione che non impedisca l’uso paritario
delle parti comuni, non rechi pregiudizio alla stabilità ed alla
sicurezza dell’edificio e non ne alteri il decoro architettonico, ipotesi
– quest’ultima – che si verifica non già quando si mutano le originali
linee architettoniche, ma quando la nuova opera si rifletta
negativamente sull’insieme dell’aspetto armonico dello stabile (Cass.
17072/2015; Cass. 18350/2013; Cass. 6341/2000).
Non occorre che il fabbricato, il cui decoro architettonico sia stato
alterato dall’innovazione, abbia un particolare pregio artistico, né
rileva che tale decoro sia stato già compromesso da precedenti
interventi sull’immobile, ma è sufficiente che vengano pregiudicate,
in modo visibile e significativo, la particolare struttura e la
complessiva armonia che conferiscono al fabbricato una propria
specifica identità (Cass. 10350/2011; Cass. 14455/2009; Cass.
8830/2008; Cass. 27551/2005; Cass. 6496/1995).
Non esclude l’illegittimità dell’opera il fatto che essa sia stata apposta
su una parete retrostante o in modo non visibile dalla strada
principale, venendo in rilievo la violazione oggettiva dell’estetica del
fabbricato data dall’insieme delle linee e delle strutture che
connotano lo stabile e gli imprimono una determinata fisionomia ed
una specifica identità, mentre il rilievo da attribuire al grado di
visibilità delle innovazioni contestate, in relazione ai diversi punti di
osservazione dell’edificio, muta da caso a caso, e non esclude di per
sé la violazione, configurabile anche riguardo ad opere interne al
fabbricato, fermo che il relativo apprezzamento è rimesso al giudice
di merito ed è sindacabile solo per vizi di motivazione (Cass.
1718/2016; Cass. 851/2007; Cass. 10350/2011).
Infine, la circostanza che l’opera fosse stata autorizzata
dall’amministrazione comunale non ne impediva la demolizione,
poiché la regolarità dell’opera da punto di vista urbanistico non
poteva incidere negativamente sui diritti degli altri condomini (Cass.
20985/2014; Cass. 1936/1977)
Non sussistendo quindi la denunciata violazione di legge e risultando
l’opera comunque illegittima riguardo alla lesione del decoro
architettonico, è superfluo stabilire se potesse operare in ambito
condominiale la disciplina di cui all’artt. 907 c.c., così come ritenuto
dalla decisione impugnata, non potendone comunque conseguire la
cassazione di detta pronuncia.
2. Il secondo motivo censura la violazione dell’art. 91 c.p.c., in
relazione all’art. 360, comma primo, n. 3 c.p.c., lamentando che
siano state poste a carico del ricorrente le spese del primo giudizio
di appello e quelle di legittimità, benché la Corte di appello di Salerno
avesse compensato le spese con pronuncia non impugnata e quindi
passata in giudicato, mentre nel giudizio di legittimità la resistente
era stata soccombente per cui le relative spese processuali
andavano poste a suo carico.
Il motivo è infondato.
La pronuncia con cui la Corte di appello di Salerno ha dichiarato
inammissibile l’appello proposto dal ricorrente, compensando le
spese di giudizio, è stata cassata da questa Corte con decisione che
ha travolto anche le statuizioni sulle spese, impedendo che su tale
capo si formasse il giudicato (Cass. 9783/2003).
Il giudice del rinvio, cui la causa era stata rimessa anche per
provvedere sulle spese del giudizio di legittimità, si è correttamente
attenuto al principio della soccombenza applicato all’esito globale del
processo, piuttosto che ai diversi gradi del giudizio ed al loro
risultato.
In tali ipotesi non è consentito liquidare le spese con riferimento a
ciascuna fase del giudizio, ma deve tenersi conto dell’esito finale
della lite, potendosi legittimamente pervenire ad un provvedimento
di compensazione, totale o parziale, ovvero, alla condanna della
parte vittoriosa nel giudizio di cassazione (ma complessivamente
soccombente) al rimborso delle spese in favore della controparte sia
per il grado di legittimità che per i gradi precedenti (Cass.
15506/2018; Cass. 20289/2015; Cass. 7246/2006).
Il ricorso è quindi respinto.
Nulla sulle spese, non avendo l’intimata svolto attività difensiva.
Sussistono le condizioni per dichiarare che il ricorrente è tenuto a
versare l’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello
dovuto per l’impugnazione, ai sensi dell’art. 1, comma 17, della
legge 24 dicembre 2012, n. 228, che ha aggiunto il comma 1-quater
all’art. 13 del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.
P.Q.M.
rigetta il ricorso
Si dà atto che il ricorrente è tenuto a versare l’ulteriore importo a
titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione,
ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228,
che ha aggiunto il comma 1-quater all’art. 13 del d.P.R. 30 maggio
2002, n. 115.
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Corte di Cassazione – copia non ufficiale
IL FlINZION
Dott.ssa S
Così deciso in Roma, 12.9.2018.