Source: Vendita fallimentare valida se l’immobile è deteriorato ma abitabile | Altalex
Una società acquista in sede fallimentare un compendio immobiliare che risulta essere difforme da quanto dichiarato nella relazione tecnica a cui ha fatto riferimento l’ordinanza di vendita. Essa agisce, quindi, in giudizio al fine di veder dichiarare la vendita aliud pro alio, ma sia in primo che in secondo grado le sue richieste vengono rigettate. Secondo i giudici di merito, infatti, è pur vero che le condizioni della palazzina acquistata risultino peggiori di quelle rappresentate in sede di vendita forzata; purtuttavia si tratta di vizi della cosa che ne diminuiscono in modo apprezzabile il valore, ma non comportano una diversità di genere del bene alienato tale da comprometterne l’uso abitativo. Per contro, l’istante intende dimostrare l’acquisto di una cosa diversa da quella venduta (il cosiddetto: aliud pro alio), in quanto essa rappresenta l’unica ipotesi in cui risulta inoperante l’art. 2922 c.c. La suddetta disposizione, in materia di vendita forzata, esclude la garanzia per i vizi della cosa. In altre parole, in caso di esecuzione forzata, l’ordinaria disciplina della compravendita di cui agli artt. 1490 c.c. (garanzia per vizi della cosa venduta) e 1497 c.c. (mancanza di qualità) non trova applicazione. Nel caso in cui il giudicante ravvisi un aliud pro alio, fuoriuscendo dall’ambito di applicazione dell’art. 2922 c.c., l’acquirente ha titolo per esperire l’azione di annullamento ex artt. 1427-1429 c.c.. La vendita aliud pro alio interviene qualora vi sia la consegna di un bene radicalmente diverso, per caratteristiche socio-economiche, da quello previsto nel contratto. Secondo la giurisprudenza, essa si verifica allorché la cosa consegnata sia difforme per natura, consistenza, destinazione ed appartenga ad un genere diverso da quello acquistato[1] ovvero quando manchino le qualità necessarie ad assolvere alla sua naturale funzione economico-sociale.[2] Un caso paradigmatico consiste nell’alienazione di un immobile destinato ad abitazione ma privo del certificato di abitabilità[3] (ora agibilità).[4] In tale ipotesi, infatti, non si verte in una mera vendita viziata, bensì nell’alienazione di un bene economicamente diverso da quello oggetto del contratto. In un siffatto caso, non opererà il meccanismo di cui all’art. 1497 c.c. con i conseguenti termini decadenziali e prescrizionali ( 8 giorni e 1 anno), ma la generale disciplina di risoluzione per inadempimento (art. 1453 c.c.). Il compratore potrà esperire l’azione di esatto adempimento, agire con l’ordinaria azione di risoluzione contrattuale, fatto salvo il risarcimento del danno[5], senza soggiacere ai termini ed alle condizioni previsti per la garanzia per vizi o per mancanza di qualità.[6] Nel caso di specie, secondo i giudici di merito, non si era verificato nulla di simile benché, ad avviso della società acquirente, la mole di lavori di ristrutturazione da eseguire fosse tale da compromettere l’idoneità all’uso abitativo previsto. La ricorrente solleva, quindi, una questione di legittimità costituzionale in relazione al citato art. 2922 c.c. per violazione degli artt. 3 e 24 Cost., stante la disparità di trattamento tra acquirenti, a seconda che il bene sia o meno oggetto di vendita forzata. Invero, tale diversità, ad avviso dei giudici, è pienamente giustificata dalla “doppia natura” della vendita forzata[7]: affine alla compravendita per gli effetti e propria del processo per la struttura. Essa realizza sia un interesse pubblico che privato, in ragione di ciò l’art. 2922 c.c. pone in essere un contemperamento di interessi in una valutazione che spetta unicamente al legislatore.La Suprema Corte, pertanto, nella pronuncia in commento, sulla falsariga della costante giurisprudenza[8], ribadisce che l’art. 2922 c.c. risulti inoperante solo allorché la res appartenga ad un genere del tutto diverso da quello indicato nell’ordinanza di vendita o ne sia compromessa la destinazione d’uso. Nel caso di specie, invece, l’immobile oggetto di alienazione forzata era molto deteriorato, ma non versava in condizioni tali da integrare un aliud pro alio; al contrario, risultava compiutamente operativo l’art. 2922 c.c. con la conseguente esclusione della garanzia per vizi; i supremi giudici, quindi, rigettano il ricorso e condannano la ricorrente al pagamento delle spese.